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- 38 - Mare Mediterraneo, giugno-luglio 1988 - Prima parte
Il 28 giugno 1988 il corpo di una donna rimase impigliato, al largo della costa marchigiana, nelle reti di un peschereccio. Si chiamava Annarita Curina, era una skipper: era stata uccisa e gettata in mare legata a un’ancora del peso di 17 chili. Era partita il 10 giugno da Pesaro a bordo della sua barca, un catamarano, l’Arx. Con lei a bordo c’erano due persone, Filippo De Cristofaro, 34 anni, e Adriana Diana Beyer, 17. Il progetto era quello di una traversata fino alle Baleari dove poi Annarita Curina si sarebbe fermata. Per non fare la traversata da sola aveva accettato a bordo le altre due persone che avrebbero dovuto aiutarla nei lavori sulla barca.
Dopo il ritrovamento del corpo iniziarono le ricerche nel mare Adriatico che poi si allargarono a tutto il Mediterraneo. L’Arx, che nel frattempo aveva cambiato nome in Fly2, era stato avvistato largo della Puglia e poi in Sicilia. Venne poi ritrovato ormeggiato nel porto tunisino di Ghar el Melh. De Cristofaro e Beyer però non c’erano. Assieme a una terza persona, che si era unita a loro dopo l’omicidio di Annarita Curina e che viaggiava assieme a un cane lupo, erano fuggiti a cavallo verso l’Algeria. Vennero arrestati il 19 luglio ed estradati in Italia. Inizialmente diedero la stessa versione dei fatti, poi ognuno raccontò una storia diversa. De Cristofaro e Beyer vennero processati per omicidio: l’uomo ricevette la pena più pesante, l’ergastolo.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano NazziFri, 01 Sep 2023 - 37 - Mare Mediterraneo, giugno-luglio 1988 - Seconda parte
Il 28 giugno 1988 il corpo di una donna rimase impigliato, al largo della costa marchigiana, nelle reti di un peschereccio. Si chiamava Annarita Curina, era una skipper: era stata uccisa e gettata in mare legata a un’ancora del peso di 17 chili. Era partita il 10 giugno da Pesaro a bordo della sua barca, un catamarano, l’Arx. Con lei a bordo c’erano due persone, Filippo De Cristofaro, 34 anni, e Adriana Diana Beyer, 17. Il progetto era quello di una traversata fino alle Baleari dove poi Annarita Curina si sarebbe fermata. Per non fare la traversata da sola aveva accettato a bordo le altre due persone che avrebbero dovuto aiutarla nei lavori sulla barca.
Dopo il ritrovamento del corpo iniziarono le ricerche nel mare Adriatico che poi si allargarono a tutto il Mediterraneo. L’Arx, che nel frattempo aveva cambiato nome in Fly2, era stato avvistato largo della Puglia e poi in Sicilia. Venne poi ritrovato ormeggiato nel porto tunisino di Ghar el Melh. De Cristofaro e Beyer però non c’erano. Assieme a una terza persona, che si era unita a loro dopo l’omicidio di Annarita Curina e che viaggiava assieme a un cane lupo, erano fuggiti a cavallo verso l’Algeria. Vennero arrestati il 19 luglio ed estradati in Italia. Inizialmente diedero la stessa versione dei fatti, poi ognuno raccontò una storia diversa. De Cristofaro e Beyer vennero processati per omicidio: l’uomo ricevette la pena più pesante, l’ergastolo.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano NazziFri, 01 Sep 2023 - 36 - Este, Broni, Bascapè, 1995-1999 - Prima Parte
Il 2 agosto 1998, domenica, alle 15.50 una donna telefona alla stazione dei carabinieri di Bascapè, in provincia di Pavia. Dice: «Venite, ho ucciso mio marito». Il corpo dell’uomo è sul balcone, avvolto in una coperta e nascosto da un tappeto. La donna ha ucciso il marito la sera prima, al termine di una lite. Entrambi, come facevano con continuità, avevano bevuto molto. In casa c’erano le due figlie della coppia che non si erano accorte di nulla.
Poi quella donna uccise ancora. Si scoprì che aveva ucciso anche in precedenza: sempre uomini violenti, che l’avevano maltrattata, l’avevano violentata o avevano tentato di farlo.
Quella donna si chiamava Milena Quaglini, i giornali la chiamarono la vendicatrice del pavese o la casalinga serial killer.
La sua è una storia di violenza, subita e inflitta, di tre omicidi che la Giustizia italiana considerò in maniera diversa nei tre gradi di giudizio e di come anche le perizie psichiatriche diedero risultati diversi l’una dall’altra. Tutte le perizie però concordarono su un punto: Milena Quaglini non dimostrò mai nessun pentimento: considerò quello che aveva fatto come una conseguenza logica di ciò che aveva subito fin dall’infanzia.
Sulla sua storia, sulla sua reale lucidità quando commise i delitti, sull’effettiva capacità di intendere e di volere e su quanto la dipendenza da alcol abbia influito sulle sue azioni restano ancora molti dubbi, tante domande che non potranno mai avere risposta. E resta una domanda senza risposta anche se Milena Quaglini, nella sua vittima, abbia ucciso anche altri uomini, oltre ai tre accertati dalle indagini.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano NazziTue, 01 Aug 2023 - 35 - Este, Broni, Bascapè, 1995-1999 - Seconda Parte
Il 2 agosto 1998, domenica, alle 15.50 una donna telefona alla stazione dei carabinieri di Bascapè, in provincia di Pavia. Dice: «Venite, ho ucciso mio marito». Il corpo dell’uomo è sul balcone, avvolto in una coperta e nascosto da un tappeto. La donna ha ucciso il marito la sera prima, al termine di una lite. Entrambi, come facevano con continuità, avevano bevuto molto. In casa c’erano le due figlie della coppia che non si erano accorte di nulla.
Poi quella donna uccise ancora. Si scoprì che aveva ucciso anche in precedenza: sempre uomini violenti, che l’avevano maltrattata, l’avevano violentata o avevano tentato di farlo.
Quella donna si chiamava Milena Quaglini, i giornali la chiamarono la vendicatrice del pavese o la casalinga serial killer.
La sua è una storia di violenza, subita e inflitta, di tre omicidi che la Giustizia italiana considerò in maniera diversa nei tre gradi di giudizio e di come anche le perizie psichiatriche diedero risultati diversi l’una dall’altra. Tutte le perizie però concordarono su un punto: Milena Quaglini non dimostrò mai nessun pentimento: considerò quello che aveva fatto come una conseguenza logica di ciò che aveva subito fin dall’infanzia.
Sulla sua storia, sulla sua reale lucidità quando commise i delitti, sull’effettiva capacità di intendere e di volere e su quanto la dipendenza da alcol abbia influito sulle sue azioni restano ancora molti dubbi, tante domande che non potranno mai avere risposta. E resta una domanda senza risposta anche se Milena Quaglini, nella sua vittima, abbia ucciso anche altri uomini, oltre ai tre accertati dalle indagini.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano NazziTue, 01 Aug 2023 - 34 - Seveso, 10 luglio 1976 - Trailer
Quella del disastro del Seveso è una puntata speciale, disponibile solo sull'app del Post per le persone abbonate: un modo per ringraziarle per la loro partecipazione al progetto del Post e per permettere che il Post possa continuare a fare il suo giornalismo in modo gratuito per tutte e tutti. Se vuoi ascoltarla puoi abbonarti qui.
Tra il comune di Meda e quello di Seveso, nella provincia di Monza e Brianza, oggi c’è un grande parco, un’area protetta: si chiama Bosco delle Querce. Fu realizzato all’inizio degli anni Ottanta: prima, in quell’area, c’erano case e laboratori artigiani, strade, negozi, cortili. Poi tutto fu raso al suolo. Accadde dopo che, il 10 luglio 1976, una nube contenente una sostanza tossica fuoriuscì da uno dei reattori di una fabbrica di Meda, l’Icmesa: Industrie Chimiche Meda Società Azionaria. Quella nube conteneva TCDD, diossina, una sostanza di cui si sapeva allora molto poco e soprattutto di cui non si conoscevano gli effetti che avrebbe avuto su donne e uomini che erano stati esposti.
Il vento spinse la nube verso Seveso, la diossina si posò proprio nell’area in cui oggi c’è il Bosco delle Querce.
La storia di come a un’intera comunità per giorni venne nascosto che cosa era accaduto e di come decine di famiglie vennero poi, forse tardivamente, evacuate è raccontata nelle due puntate speciali di Indagini – Altre Indagini – disponibili dal 10 luglio per le abbonate e gli abbonati del Post. Altre Indagini racconta delle conseguenze immediate che ebbe quella nube tossica, di come i media ne parlarono e di come l’affrontarono le popolazioni di Meda e Seveso. E degli affetti che ebbe poi nel lungo periodo.
Racconta anche di come quell’evento cambiò l’Italia e l’Europa che furono costrette a stabilire nuove, rigide regole per le fabbriche che lavoravano sostanze pericolose. E racconta di come da ciò che accadde nacquero importanti discussioni e molte polemiche sull’interruzione di gravidanza, allora non permessa in Italia. Come andava affrontata la possibilità che nascessero bambini malformati dalle future madri che erano state esposte alla diossina?
Altre Indagini racconta anche di come venne poi smaltito tutto ciò che era stato contaminato, di come 41 fusti di materiale tossico partirono dall’Italia e poi sparirono, per riapparire tre anni dopo. E di come si decise alla fine di sotterrare tutto, a 50 metri di profondità in due enormi vasche, una da 200 mila e l'altra 80 mila metri cubi. Sono le due vasche che si trovano sotto il bosco delle querce. Sopra c’è il verde, gli alberi, un parco meraviglioso. Sotto ci sono i resti di case, mobili, vestiti, oggetti, ruspe, divise, mezzi di trasporto, ciò che rimane di migliaia di animali morti.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano NazziMon, 10 Jul 2023 - 33 - Colle San Marco, 18 aprile 2011 - Prima Parte
Il 10 luglio uscirà una puntata speciale di Indagini, disponibile solo sull'app del Post per le persone abbonate. Per abbonarti vai su abbonati.ilpost.it.
Il 18 aprile 2011 una donna scomparve a Colle San Marco, a venti chilometri da Ascoli Piceno. Si chiamava Melania Rea, era andata a fare una gita con il marito, Salvatore Parolisi, e la figlia Vittoria, di 18 mesi.
L’uomo disse che la moglie si era allontanata per andare in bagno e poi non era più tornata.
Due giorni dopo, il corpo della donna fu ritrovato a Ripe di Civitella, a venti chilometri dal luogo dove era scomparsa. Era stata assassinata con 35 coltellate. Sul suo corpo era stata incisa una svastica.
Vennero scoperte molte bugie e omertà e ci furono fughe di notizie che rischiarono di compromettere l’inchiesta.
Le indagini dopo alcune settimane si concentrarono sul marito che, secondo gli inquirenti, non aveva saputo gestire la propria vita, diviso tra la moglie e il rapporto con una ragazza, sua ex allieva, conosciuta in caserma. Gli inquirenti parlarono di una «strettoia emotiva». Parolisi fu arrestato a luglio, tre mesi dopo il delitto. Per gli inquirenti aveva ucciso la moglie e poi agito sulla scena del crimine per depistare le indagini.
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sat, 01 Jul 2023 - 32 - Colle San Marco, 18 aprile 2011 - Seconda Parte
Il 10 luglio uscirà una puntata speciale di Indagini, disponibile solo sull'app del Post per le persone abbonate. Per abbonarti vai su abbonati.ilpost.it.
Il 18 aprile 2011 una donna scomparve a Colle San Marco, a venti chilometri da Ascoli Piceno. Si chiamava Melania Rea, era andata a fare una gita con il marito, Salvatore Parolisi, e la figlia Vittoria, di 18 mesi.
L’uomo disse che la moglie si era allontanata per andare in bagno e poi non era più tornata.
Due giorni dopo, il corpo della donna fu ritrovato a Ripe di Civitella, a venti chilometri dal luogo dove era scomparsa. Era stata assassinata con 35 coltellate. Sul suo corpo era stata incisa una svastica.
Vennero scoperte molte bugie e omertà e ci furono fughe di notizie che rischiarono di compromettere l’inchiesta.
Le indagini dopo alcune settimane si concentrarono sul marito che, secondo gli inquirenti, non aveva saputo gestire la propria vita, diviso tra la moglie e il rapporto con una ragazza, sua ex allieva, conosciuta in caserma. Gli inquirenti parlarono di una «strettoia emotiva». Parolisi fu arrestato a luglio, tre mesi dopo il delitto. Per gli inquirenti aveva ucciso la moglie e poi agito sulla scena del crimine per depistare le indagini.
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sat, 01 Jul 2023 - 31 - Roma, 7 agosto 1990 - Prima parte
Il 7 agosto 1990 in via Poma, a Roma, nel quartiere Prati, una ragazza di vent’anni venne assassinata con 29 colpi di quello che il medico legale definì «un mezzo da punta e taglio con peculiarità bitagliente ma non dotata di particolare azione recidente e penetrata segnatamente in virtù della sua estremità aguzza». Il medico disse che poteva trattarsi di un tagliacarte ma sull’arma non c’è mai stata alcuna certezza.
La ragazza si chiamava Simonetta Cesaroni. Quel giorno era in un ufficio dell’AIAG, Associazione italiana alberghi della gioventù. Stava lavorando al computer: doveva inserire alcuni dati contabili.
Per il suo omicidio venne indagato e arrestato il portiere dello stabile in cui si trovava l’ufficio, Pietrino Vanacore. Fu rilasciato qualche giorno dopo: contro di lui non c’era nessuna prova concreta. Il suo nome però tornò più volte, negli anni, durante le indagini. Due anni dopo a essere indagato fu il nipote di un inquilino della palazzina in cui era avvenuto l’omicidio. Anche lui fu scagionato. Vent’anni più tardi a essere processato fu il ragazzo che, all’epoca era fidanzato con Simonetta Cesaroni: Raniero Busco. Venne condannato in primo grado e poi assolto in appello e in cassazione.
Il colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni non è mai stato individuato e il caso di via Poma è il cold case più famoso della storia italiana.
Nello shop del Post è disponibile la borsa di Indagini.
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Thu, 01 Jun 2023 - 30 - Roma, 7 agosto 1990 - Seconda parte
Il 7 agosto 1990 in via Poma, a Roma, nel quartiere Prati, una ragazza di vent’anni venne assassinata con 29 colpi di quello che il medico legale definì «un mezzo da punta e taglio con peculiarità bitagliente ma non dotata di particolare azione recidente e penetrata segnatamente in virtù della sua estremità aguzza». Il medico disse che poteva trattarsi di un tagliacarte ma sull’arma non c’è mai stata alcuna certezza.
La ragazza si chiamava Simonetta Cesaroni. Quel giorno era in un ufficio dell’AIAG, Associazione italiana alberghi della gioventù. Stava lavorando al computer: doveva inserire alcuni dati contabili.
Per il suo omicidio venne indagato e arrestato il portiere dello stabile in cui si trovava l’ufficio, Pietrino Vanacore. Fu rilasciato qualche giorno dopo: contro di lui non c’era nessuna prova concreta. Il suo nome però tornò più volte, negli anni, durante le indagini. Due anni dopo a essere indagato fu il nipote di un inquilino della palazzina in cui era avvenuto l’omicidio. Anche lui fu scagionato. Vent’anni più tardi a essere processato fu il ragazzo che, all’epoca era fidanzato con Simonetta Cesaroni: Raniero Busco. Venne condannato in primo grado e poi assolto in appello e in cassazione.
Il colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni non è mai stato individuato e il caso di via Poma è il cold case più famoso della storia italiana.
Nello shop del Post è disponibile la borsa di Indagini.
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Thu, 01 Jun 2023 - 29 - Veneto, Lombardia, Germania, 1977-1984 - Prima Parte
Il pomeriggio del 4 marzo 1984 due ragazzi vennero fermati mentre spargevano benzina all’interno di una discoteca, a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova.
In quel momento, all’interno, era in corso una festa di carnevale: c’erano circa 500 persone. Ai carabinieri che li portarono in caserma i due ragazzi diedero i loro nomi: Wolfgang Abel e Marco Furlan: avevano 24 anni, entrambi erano di Verona.
Vennero sottoposti a fermo giudiziario e poi arrestati.
Da quel momento la loro storia venne percorsa a ritroso, passando per Monaco di Baviera, Milano, Vicenza, Venezia, Padova. Era iniziato tutto a Verona, il 25 agosto di 1977.
I due ragazzi avevano ucciso, utilizzando coltelli, martelli, benzina. Si erano dati un nome: Ludwig. Vennero condannati per aver assassinato dieci persone ma rimase il dubbio che fossero gli autori anche di molti altri delitti. Le loro vittime furono tossicodipendenti, prostitute, religiosi, senzatetto. Odiavano i locali notturni, volevano colpire le discoteche.
Questa è la storia di Marco Furlan e Wolfgang Abel, la storia di Ludwig e della domanda che non ha mai avuto una risposta: erano davvero solo loro due?
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sat, 06 May 2023 - 28 - Veneto, Lombardia, Germania, 1977-1984 - Seconda Parte
Il pomeriggio del 4 marzo 1984 due ragazzi vennero fermati mentre spargevano benzina all’interno di una discoteca, a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova.
In quel momento, all’interno, era in corso una festa di carnevale: c’erano circa 500 persone. Ai carabinieri che li portarono in caserma i due ragazzi diedero i loro nomi: Wolfgang Abel e Marco Furlan: avevano 24 anni, entrambi erano di Verona.
Vennero sottoposti a fermo giudiziario e poi arrestati.
Da quel momento la loro storia venne percorsa a ritroso, passando per Monaco di Baviera, Milano, Vicenza, Venezia, Padova. Era iniziato tutto a Verona, il 25 agosto di 1977.
I due ragazzi avevano ucciso, utilizzando coltelli, martelli, benzina. Si erano dati un nome: Ludwig. Vennero condannati per aver assassinato dieci persone ma rimase il dubbio che fossero gli autori anche di molti altri delitti. Le loro vittime furono tossicodipendenti, prostitute, religiosi, senzatetto. Odiavano i locali notturni, volevano colpire le discoteche.
Questa è la storia di Marco Furlan e Wolfgang Abel, la storia di Ludwig e della domanda che non ha mai avuto una risposta: erano davvero solo loro due?
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sat, 06 May 2023 - 27 - Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Prima Parte
Iniziò tutto lungo l’autostrada A14, la notte del 19 giugno 1987. Una Fiat Regata si fermò al casello di Pesaro. Scesero due rapinatori e puntando i fucili a pompa contro l’addetto al casello si fecero consegnare 1 milione e trecentomila lire, circa 1.500 euro di oggi. A quella prima rapina ne seguirono molte altre, lungo l’autostrada A14. Poi i banditi passarono agli uffici postali, ai supermercati Coop e quindi alla banche. Rapinarono in Emilia-Romagna e nelle Marche. Qualche mese dopo iniziarono a uccidere: in sette anni quella banda uccise più di 20 persone, ne ferì più di 100, compì almeno 103 azioni criminali.
Uccisero per denaro ma anche senza nessun motivo. Uccisero persone inermi che avevano osato mettersi sulla loro strada, e uccisero per razzismo.
Quel gruppo di criminali è diventato famoso come la banda della Uno Bianca.
Le indagini furono ostacolate da depistaggi, sviste, noncuranze, incomprensioni. Ma anche dal fatto che nessuno poteva immaginare chi fossero davvero quei criminali. Li arrestarono nel novembre del 1994. Cinque di loro erano poliziotti in servizio in Emilia-Romagna.
In molti pensano ancora oggi che non tutto sia stato scoperto. Che i banditi della Uno Bianca abbiano goduto di coperture e che i servizi segreti dell’epoca abbiano avuto un ruolo nella vicenda.
Dopo una sanguinosa rapina in un’armeria di Bologna, in questura venne appeso l’identikit di uno degli assassini. Quell’identikit era identico al volto di Roberto Savi, uno dei poliziotti che tre anni dopo venne arrestato. Nessuno notò quella somiglianza. O forse nessuno volle notarla.
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sat, 01 Apr 2023 - 26 - Emilia-Romagna e Marche, 1987-1994 - Seconda Parte
Iniziò tutto lungo l’autostrada A14, la notte del 19 giugno 1987. Una Fiat Regata si fermò al casello di Pesaro. Scesero due rapinatori e puntando i fucili a pompa contro l’addetto al casello si fecero consegnare 1 milione e trecentomila lire, circa 1.500 euro di oggi. A quella prima rapina ne seguirono molte altre, lungo l’autostrada A14. Poi i banditi passarono agli uffici postali, ai supermercati Coop e quindi alla banche. Rapinarono in Emilia-Romagna e nelle Marche. Qualche mese dopo iniziarono a uccidere: in sette anni quella banda uccise più di 20 persone, ne ferì più di 100, compì almeno 103 azioni criminali.
Uccisero per denaro ma anche senza nessun motivo. Uccisero persone inermi che avevano osato mettersi sulla loro strada, e uccisero per razzismo.
Quel gruppo di criminali è diventato famoso come la banda della Uno Bianca.
Le indagini furono ostacolate da depistaggi, sviste, noncuranze, incomprensioni. Ma anche dal fatto che nessuno poteva immaginare chi fossero davvero quei criminali. Li arrestarono nel novembre del 1994. Cinque di loro erano poliziotti in servizio in Emilia-Romagna.
In molti pensano ancora oggi che non tutto sia stato scoperto. Che i banditi della Uno Bianca abbiano goduto di coperture e che i servizi segreti dell’epoca abbiano avuto un ruolo nella vicenda.
Dopo una sanguinosa rapina in un’armeria di Bologna, in questura venne appeso l’identikit di uno degli assassini. Quell’identikit era identico al volto di Roberto Savi, uno dei poliziotti che tre anni dopo venne arrestato. Nessuno notò quella somiglianza. O forse nessuno volle notarla.
Indagini è un podcast del Post scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sat, 01 Apr 2023 - 25 - Novi Ligure, 21 febbraio 2001 - Prima parte
Il 21 febbraio 2001 una ragazza a piedi nudi, sporca di sangue, fermò un’auto che passava vicino a casa sua, nel quartiere Lodolino, a Novi Ligure. Disse che due persone, un giovane e uno più anziano, erano entrate in casa: avevano ucciso sua madre e suo fratello di 12 anni. Disse che erano stranieri, albanesi. Fece gli identikit, riconobbe anche una fotografia che i carabinieri le mostrarono: era quella di un ragazzo di origine albanese. I militari lo andarono a prendere ma lui aveva un alibi, venne rilasciato.
Il procuratore capo di Alessandria, che entrò nella casa, dove erano avvenuti i due omicidi, si sentì male. Disse che non aveva mai visto nulla di simile. Intervistato dal telegiornale di Raiuno disse: «C’è gente feroce».
Ci furono proteste e fiaccolate contro i migranti, molti politici soffiarono sul fuoco. I giornali nei titoli parlarono di una banda di slavi. Poi, dopo due giorni, si scoprì che la verità era molto più banale e la ferocia molto più vicina.
La ragazza che cercava aiuto sporca di sangue venne arrestata con l’accusa di aver ucciso la madre, Susy Cassini, e il fratello Gianluca. Con lei venne arrestato il suo fidanzato, Mauro Favaro, che tutti chiamavano Omar.
La storia di ciò che accadde, del processo che seguì a quelli avvenimenti, di come la giustizia minorile si trovò ad affrontare un delitto feroce, “da adulti” commesso però da due poco più che bambini, è una di quelle che più hanno segnato la storia d’Italia degli ultimi vent’anni.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Wed, 01 Mar 2023 - 24 - Novi Ligure, 21 febbraio 2001 - Seconda parte
Il 21 febbraio 2001 una ragazza a piedi nudi, sporca di sangue, fermò un’auto che passava vicino a casa sua, nel quartiere Lodolino, a Novi Ligure. Disse che due persone, un giovane e uno più anziano, erano entrate in casa: avevano ucciso sua madre e suo fratello di 12 anni. Disse che erano stranieri, albanesi. Fece gli identikit, riconobbe anche una fotografia che i carabinieri le mostrarono: era quella di un ragazzo di origine albanese. I militari lo andarono a prendere ma lui aveva un alibi, venne rilasciato.
Il procuratore capo di Alessandria, che entrò nella casa, dove erano avvenuti i due omicidi, si sentì male. Disse che non aveva mai visto nulla di simile. Intervistato dal telegiornale di Raiuno disse: «C’è gente feroce».
Ci furono proteste e fiaccolate contro i migranti, molti politici soffiarono sul fuoco. I giornali nei titoli parlarono di una banda di slavi. Poi, dopo due giorni, si scoprì che la verità era molto più banale e la ferocia molto più vicina.
La ragazza che cercava aiuto sporca di sangue venne arrestata con l’accusa di aver ucciso la madre, Susy Cassini, e il fratello Gianluca. Con lei venne arrestato il suo fidanzato, Mauro Favaro, che tutti chiamavano Omar.
La storia di ciò che accadde, del processo che seguì a quelli avvenimenti, di come la giustizia minorile si trovò ad affrontare un delitto feroce, “da adulti” commesso però da due poco più che bambini, è una di quelle che più hanno segnato la storia d’Italia degli ultimi vent’anni.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Wed, 01 Mar 2023 - 23 - Roma, 17 giugno 1983 - Prima Parte
Il 17 giugno 1983, alle 4.30 del mattino, i carabinieri bussarono alla porta di una stanza dell’Hotel Plaza, a Roma, in via del Corso. Iniziò così una delle vicende di cronaca più incredibili della storia d’Italia. Enzo Tortora, giornalista televisivo famosissimo, conduttore di una trasmissione che andava in onda Rai2 il venerdì sera ed era seguita da oltre 20 milioni di spettatori, venne arrestato con l’accusa di far parte della camorra e di essere uno spacciatore di droga, amico e complice dei più celebri capi della criminalità organizzata degli anni Ottanta.
Contro di lui c’erano i racconti di due pentiti, Pasquale Barra detto o’animale, e Giovanni Pandico, chiamato o’ pazzo.
La storia del caso Tortora è la storia di indagini che non vennero fatte, di pentiti che si giurarono vendetta e morte l’un l’altro, di elastici di slip che si ruppero e costringendo una donna ad appartarsi e vedere, disse poi lei, cosa non avrebbe dovuto vedere. Ma anche di centrini da tavola realizzati all'uncinetto da un carcerato, di serate al derby club di Milano, di elezioni europee, di soldi del terremoto del 1980, di giornali che inventarono di tutto e di quattro anni di una vicenda giudiziaria che oggi, a raccontarla, pare davvero impossibile che sia potuta realmente accadere.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Wed, 01 Feb 2023 - 22 - Roma, 17 giugno 1983 - Seconda parte
Il 17 giugno 1983, alle 4.30 del mattino, i carabinieri bussarono alla porta di una stanza dell’Hotel Plaza, a Roma, in via del Corso. Iniziò così una delle vicende di cronaca più incredibili della storia d’Italia. Enzo Tortora, giornalista televisivo famosissimo, conduttore di una trasmissione che andava in onda Rai2 il venerdì sera ed era seguita da oltre 20 milioni di spettatori, venne arrestato con l’accusa di far parte della camorra e di essere uno spacciatore di droga, amico e complice dei più celebri capi della criminalità organizzata degli anni Ottanta.
Contro di lui c’erano i racconti di due pentiti, Pasquale Barra detto o’animale, e Giovanni Pandico, chiamato o’ pazzo.
La storia del caso Tortora è la storia di indagini che non vennero fatte, di pentiti che si giurarono vendetta e morte l’un l’altro, di elastici di slip che si ruppero e costringendo una donna ad appartarsi e vedere, disse poi lei, cosa non avrebbe dovuto vedere. Ma anche di centrini da tavola realizzati all'uncinetto da un carcerato, di serate al derby club di Milano, di elezioni europee, di soldi del terremoto del 1980, di giornali che inventarono di tutto e di quattro anni di una vicenda giudiziaria che oggi, a raccontarla, pare davvero impossibile che sia potuta realmente accadere.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Wed, 01 Feb 2023 - 21 - Parma, 4 agosto 1989 - Prima Parte
Un camper, marca Ford, con sei posti letto, bianco con strisce beige. Partì da Parma il 4 agosto 1989, destinazione Spagna, o forse Nordafrica. Comunque, vacanze. Era di proprietà di una famiglia composta da quattro persone: la famiglia Carretta.
A inizio settembre quel camper non era ancora tornato. Giuseppe Carretta avrebbe dovuto riprendere il lavoro nell’azienda di cui era il contabile ma non si era fatto vivo, nemmeno una telefonata. Eppure, dissero i suoi colleghi, avvertiva anche se tardava pochi minuti. Con lui era sparita la moglie, Marta Chezzi. Neppure dei due figli, Nicola e Ferdinando, si sapeva più nulla.
Iniziò la caccia al camper: per settimane arrivarono segnalazioni da tutta Italia, ma anche dall’estero. Alla fine venne ritrovato, parcheggiato in una strada di Milano. Degli occupanti non c’era nessuna traccia.
Iniziò a diffondersi la voce che Giuseppe Carretta fosse scappato portando con sé 10 miliardi di lire sottratti alla sua azienda: fondi neri, e quindi non denunciati. Si disse che l’intera famiglia si fosse trasferita ai Caraibi a godersi i soldi. Che fossero tutti lontani e felici.
Per quasi dieci anni i Carretta vennero segnalati in varie parti del mondo. Investigatori e giornalisti partivano alla ricerca ma ogni pista alla fine si rivelava falsa, o inconsistente.
Fino a che un poliziotto inglese fermò un ragazzo che in moto, a Londra, stava facendo zig zag tra le auto…
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sun, 01 Jan 2023 - 20 - Parma, 4 agosto 1989 - Seconda Parte
Un camper, marca Ford, con sei posti letto, bianco con strisce beige. Partì da Parma il 4 agosto 1989, destinazione Spagna, o forse Nordafrica. Comunque, vacanze. Era di proprietà di una famiglia composta da quattro persone: la famiglia Carretta.
A inizio settembre quel camper non era ancora tornato. Giuseppe Carretta avrebbe dovuto riprendere il lavoro nell’azienda di cui era il contabile ma non si era fatto vivo, nemmeno una telefonata. Eppure, dissero i suoi colleghi, avvertiva anche se tardava pochi minuti. Con lui era sparita la moglie, Marta Chezzi. Neppure dei due figli, Nicola e Ferdinando, si sapeva più nulla.
Iniziò la caccia al camper: per settimane arrivarono segnalazioni da tutta Italia, ma anche dall’estero. Alla fine venne ritrovato, parcheggiato in una strada di Milano. Degli occupanti non c’era nessuna traccia.
Iniziò a diffondersi la voce che Giuseppe Carretta fosse scappato portando con sé 10 miliardi di lire sottratti alla sua azienda: fondi neri, e quindi non denunciati. Si disse che l’intera famiglia si fosse trasferita ai Caraibi a godersi i soldi. Che fossero tutti lontani e felici.
Per quasi dieci anni i Carretta vennero segnalati in varie parti del mondo. Investigatori e giornalisti partivano alla ricerca ma ogni pista alla fine si rivelava falsa, o inconsistente.
Fino a che un poliziotto inglese fermò un ragazzo che in moto, a Londra, stava facendo zig zag tra le auto…
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sun, 01 Jan 2023 - 19 - Brembate di Sopra, 26 novembre 2010 – Prima parte
Il 26 novembre 2010, a Brembate di Sopra, a poco più di dieci chilometri da Bergamo, scomparve una ragazza di 13 anni. Si chiamava Yara Gambirasio. Era uscita di casa per andare al centro sportivo dove si allenava abitualmente: faceva parte della squadra locale di ginnastica ritmica. Quel pomeriggio era andata in palestra per consegnare alle istruttrici uno stereo che sarebbe servito per una gara, due giorni dopo. La ragazza entrò in palestra, si fermò meno di un’ora, poi venne vista uscire. Da quel momento, di lei, per tre mesi, non si seppe più nulla.
Il corpo fu ritrovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da Brembate. Yara Gambirasio era stata colpita con un’arma da taglio, un coltello o un taglierino. Non morì però per le ferite: morì di freddo, in quel campo, stordita e debilitata, incapace di muoversi.
Sui suoi vestiti furono trovate tracce biologiche. Iniziò così un’indagine scientifica senza precedenti in Italia. Vennero raccolti oltre ventimila campioni di DNA tra gli abitanti della zona. Fu individuato un ragazzo, poi un nucleo familiare e infine un uomo, Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, che secondo secondo le analisi del DNA più volte era il padre dell’assassino. Nessun profilo genetico dei suoi figli era però quello trovato sui vestiti di Yara Gambirasio. L’indagine scientifica si trasformò così in una ricerca, paese per paese, del figlio mai riconosciuto di quell’uomo. La ricerca si concluse nel giugno del 2014 con l’arresto di un uomo di 44 anni.
Nel corso delle anni ci furono polemiche, errori, ma anche intuizioni. E intorno a quella indagini scientifica, a quei campioni di DNA, si aprì una disputa tra procura di Bergamo e la difesa dell’imputato che ancora non si è conclusa.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Thu, 01 Dec 2022 - 18 - Brembate di Sopra, 26 novembre 2010 – Seconda parte
Il 26 novembre 2010, a Brembate di Sopra, a poco più di dieci chilometri da Bergamo, scomparve una ragazza di 13 anni. Si chiamava Yara Gambirasio. Era uscita di casa per andare al centro sportivo dove si allenava abitualmente: faceva parte della squadra locale di ginnastica ritmica. Quel pomeriggio era andata in palestra per consegnare alle istruttrici uno stereo che sarebbe servito per una gara, due giorni dopo. La ragazza entrò in palestra, si fermò meno di un’ora, poi venne vista uscire. Da quel momento, di lei, per tre mesi, non si seppe più nulla.
Il corpo fu ritrovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da Brembate. Yara Gambirasio era stata colpita con un’arma da taglio, un coltello o un taglierino. Non morì però per le ferite: morì di freddo, in quel campo, stordita e debilitata, incapace di muoversi.
Sui suoi vestiti furono trovate tracce biologiche. Iniziò così un’indagine scientifica senza precedenti in Italia. Vennero raccolti oltre ventimila campioni di DNA tra gli abitanti della zona. Fu individuato un ragazzo, poi un nucleo familiare e infine un uomo, Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, che secondo secondo le analisi del DNA più volte era il padre dell’assassino. Nessun profilo genetico dei suoi figli era però quello trovato sui vestiti di Yara Gambirasio. L’indagine scientifica si trasformò così in una ricerca, paese per paese, del figlio mai riconosciuto di quell’uomo. La ricerca si concluse nel giugno del 2014 con l’arresto di un uomo di 44 anni.
Nel corso delle anni ci furono polemiche, errori, ma anche intuizioni. E intorno a quella indagini scientifica, a quei campioni di DNA, si aprì una disputa tra procura di Bergamo e la difesa dell’imputato che ancora non si è conclusa.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Thu, 01 Dec 2022 - 17 - Ladispoli, 17 maggio 2015 – Prima parte
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 2015 un ragazzo di vent’anni, Marco Vannini, fu raggiunto da un colpo di pistola mentre era a casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli, a Ladispoli, in provincia di Roma. Il proiettile trapassò il braccio destro, entrò nell’emitorace, attraversò il polmone destro, poi quello sinistro e si fermò nel pericardio, la membrana che circonda il cuore.
La famiglia Ciontoli chiamò il 118 oltre mezz’ora dopo lo sparo annullando però, nella stessa telefonata, la richiesta di intervento. Il 118 venne chiamato di nuovo molti minuti più tardi. Furono due telefonate surreali, in cui i Ciontoli dissero molte bugie cercando di mascherare ciò che era realmente accaduto
Marco Vannini morì quattro ore dopo essere stato ferito. Le perizie stabilirono che, se fosse stato soccorso tempestivamente, si sarebbe potuto salvare: nel suo torace fu trovata una quantità di sangue tra il litro e mezzo e i due litri. Morì lentamente, dissanguato dall’emorragia.
Le indagini e i processi cercarono di ricostruire ciò che avvenne a Ladispoli, nella casa della famiglia Ciontoli, la notte in cui Marco Vannini venne colpito dal proiettile sparato da una pistola marca Beretta calibro nove. Tutto si basava sulle dichiarazioni della famiglia Ciontoli, sulle contraddizioni, le evidenti menzogne. Soprattutto il processo cercò di chiarire cosa avvenne nei minuti, nelle ore e poi nei giorni successivi quando un intero nucleo familiare raccontò che Marco era caduto dalle scale, quindi che aveva avuto un attacco di panico perché dalla pistola era uscito un colpo d’aria, poi che si era ferito con un pettine e infine che una pistola aveva sparato ma il colpo era partito praticamente da solo. E che Marco Vannini era stato ferito solo di striscio.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Tue, 01 Nov 2022 - 16 - Ladispoli, 17 maggio 2015 – Seconda parte
Nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 2015 un ragazzo di vent’anni, Marco Vannini, fu raggiunto da un colpo di pistola mentre era a casa della sua fidanzata, Martina Ciontoli, a Ladispoli, in provincia di Roma. Il proiettile trapassò il braccio destro, entrò nell’emitorace, attraversò il polmone destro, poi quello sinistro e si fermò nel pericardio, la membrana che circonda il cuore.
La famiglia Ciontoli chiamò il 118 oltre mezz’ora dopo lo sparo annullando però, nella stessa telefonata, la richiesta di intervento. Il 118 venne chiamato di nuovo molti minuti più tardi. Furono due telefonate surreali, in cui i Ciontoli dissero molte bugie cercando di mascherare ciò che era realmente accaduto
Marco Vannini morì quattro ore dopo essere stato ferito. Le perizie stabilirono che, se fosse stato soccorso tempestivamente, si sarebbe potuto salvare: nel suo torace fu trovata una quantità di sangue tra il litro e mezzo e i due litri. Morì lentamente, dissanguato dall’emorragia.
Le indagini e i processi cercarono di ricostruire ciò che avvenne a Ladispoli, nella casa della famiglia Ciontoli, la notte in cui Marco Vannini venne colpito dal proiettile sparato da una pistola marca Beretta calibro nove. Tutto si basava sulle dichiarazioni della famiglia Ciontoli, sulle contraddizioni, le evidenti menzogne. Soprattutto il processo cercò di chiarire cosa avvenne nei minuti, nelle ore e poi nei giorni successivi quando un intero nucleo familiare raccontò che Marco era caduto dalle scale, quindi che aveva avuto un attacco di panico perché dalla pistola era uscito un colpo d’aria, poi che si era ferito con un pettine e infine che una pistola aveva sparato ma il colpo era partito praticamente da solo. E che Marco Vannini era stato ferito solo di striscio.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Tue, 01 Nov 2022 - 15 - Cogne, 30 gennaio 2002 – Prima parte
Il 30 gennaio 2002, alle 8.27 di mattina, giunse una telefonata al 118. Proveniva da Montroz, una frazione di Cogne, in Valle d’Aosta. Una donna disse urlando che aveva bisogno di aiuto perché suo figlio stava vomitando sangue dalla bocca. Quando arrivarono i soccorsi si resero conto che c’era molto di più, e molto peggio. Il bambino non stava vomitando sangue. Aveva una profonda ferita alla testa da cui fuoriusciva materia cerebrale: qualcuno l’aveva colpito più volte, con estrema violenza. Quel bambino si chiamava Samuele Lorenzi, aveva tre anni: venne dichiarato morto appena giunto all’ospedale di Aosta. La donna che aveva chiamato il 118 era sua madre, Annamaria Franzoni. Le indagini che seguirono furono soprattutto basate su perizie scientifiche, la scena del delitto vene ricostruita, le tracce di sangue analizzate secondo una tecnica innovativa per l’Italia, la bloodstain pattern analysis. Ci furono scontri potenti tra l’avvocato difensore, Carlo Taormina, e chi conduceva le indagini e qualcuno tentò anche di inventare dal nulla delle prove. La televisione entrò prepotentemente nella strategia difensiva mentre attorno alla figura di Annamaria Franzoni si crearono due schieramenti, innocentisti e colpevolisti. E ancora oggi, a vent’anni di distanza, ci sono dubbi e domande senza risposta.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sat, 01 Oct 2022 - 14 - Cogne, 30 gennaio 2002 – Seconda parte
Il 30 gennaio 2002, alle 8.27 di mattina, giunse una telefonata al 118. Proveniva da Montroz, una frazione di Cogne, in Valle d’Aosta. Una donna disse urlando che aveva bisogno di aiuto perché suo figlio stava vomitando sangue dalla bocca. Quando arrivarono i soccorsi si resero conto che c’era molto di più, e molto peggio. Il bambino non stava vomitando sangue. Aveva una profonda ferita alla testa da cui fuoriusciva materia cerebrale: qualcuno l’aveva colpito più volte, con estrema violenza. Quel bambino si chiamava Samuele Lorenzi, aveva tre anni: venne dichiarato morto appena giunto all’ospedale di Aosta. La donna che aveva chiamato il 118 era sua madre, Annamaria Franzoni. Le indagini che seguirono furono soprattutto basate su perizie scientifiche, la scena del delitto vene ricostruita, le tracce di sangue analizzate secondo una tecnica innovativa per l’Italia, la bloodstain pattern analysis. Ci furono scontri potenti tra l’avvocato difensore, Carlo Taormina, e chi conduceva le indagini e qualcuno tentò anche di inventare dal nulla delle prove. La televisione entrò prepotentemente nella strategia difensiva mentre attorno alla figura di Annamaria Franzoni si crearono due schieramenti, innocentisti e colpevolisti. E ancora oggi, a vent’anni di distanza, ci sono dubbi e domande senza risposta.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sat, 01 Oct 2022 - 13 - Veneto e Friuli Venezia Giulia, 1994-2006 – Prima parte
Il 21 agosto 1994 a Sacile, in provincia di Pordenone, durante la sagra degli osei, una fiera antichissima, esplose una bomba che ferì leggermente alcune persone. Era semplice polvere da sparo in un tubo. La notizia passò quasi inosservata, in fondo nessuno aveva riportato danni troppo seri. E nessuno poteva immaginare che nelle settimane seguenti a quelle bombe ne sarebbero seguite altre, e poi altre ancora negli anni successivi. Dal 1994 al 2006 in Veneto e Friuli Venezia Giulia esplosero bombe sempre più sofisticate: bombe trappola, nascoste in ovetti Kinder, barattoli di Nutella, tubetti di maionese, candele. Vennero ferite moltissime persone e a lungo in tanti ebbero paura di cose consuete, come fare la spesa al supermercato, andare in chiesa, aprire un barattolo. Indagarono tante procure, Venezia, Treviso, Pordenone, Udine, Trieste. E tanti investigatori che spesso non si parlavano tra di loro. Ci furono fughe di notizie, vennero tracciati molti profili psicologici. Una persona fu sospettata, restò al centro delle indagini per cinque anni. Si scoprì che una prova, la cosiddetta “pistola fumante” che avrebbe dovuto dimostrare la sua colpevolezza, era in realtà stata manomessa. E ancora oggi non sappiamo chi abbia costruito e messo tutte quelle bombe, se fosse una persona sola, se fossero tanti. E perché.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Thu, 01 Sep 2022 - 12 - Veneto e Friuli Venezia Giulia, 1994-2006 – Seconda parte
Il 21 agosto 1994 a Sacile, in provincia di Pordenone, durante la sagra degli osei, una fiera antichissima, esplose una bomba che ferì leggermente alcune persone. Era semplice polvere da sparo in un tubo. La notizia passò quasi inosservata, in fondo nessuno aveva riportato danni troppo seri. E nessuno poteva immaginare che nelle settimane seguenti a quelle bombe ne sarebbero seguite altre, e poi altre ancora negli anni successivi. Dal 1994 al 2006 in Veneto e Friuli Venezia Giulia esplosero bombe sempre più sofisticate: bombe trappola, nascoste in ovetti Kinder, barattoli di Nutella, tubetti di maionese, candele. Vennero ferite moltissime persone e a lungo in tanti ebbero paura di cose consuete, come fare la spesa al supermercato, andare in chiesa, aprire un barattolo. Indagarono tante procure, Venezia, Treviso, Pordenone, Udine, Trieste. E tanti investigatori che spesso non si parlavano tra di loro. Ci furono fughe di notizie, vennero tracciati molti profili psicologici. Una persona fu sospettata, restò al centro delle indagini per cinque anni. Si scoprì che una prova, la cosiddetta “pistola fumante” che avrebbe dovuto dimostrare la sua colpevolezza, era in realtà stata manomessa. E ancora oggi non sappiamo chi abbia costruito e messo tutte quelle bombe, se fosse una persona sola, se fossero tanti. E perché.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Thu, 01 Sep 2022 - 11 - Lombardia, 1998-2004 – Prima parte
Nel racconto di delitti e casi di cronaca nera, spesso sono i media a dare nomi e nomignoli ai protagonisti delle vicende: l’espressione “Bestie di Satana”, invece, se la diedero i protagonisti stessi. Un gruppo di ragazzi della provincia di Varese che negli anni Novanta prese a frequentarsi tra la fiera di Senigallia, un pub a Milano famoso per la musica metal, i boschi di Somma Lombardo, e che fu considerato responsabile di almeno tre omicidi e un suicidio indotto tra il 1998 e il 2004. È una vicenda che oscilla tra l’inquietante e il grottesco, prima di diventare tragica. All’inizio prevale il grottesco: le camerette da ragazzini pitturate tutte di nero, le teste di caprone in plastica, gli scambi di gocce di sangue, le frasi lette al contrario, le prove di resistenza al dolore con le sigarette spente sulle braccia, i nomi di battaglia, i riti in cui veniva evocato un improbabile essere demoniaco. C’erano anche sostanze stupefacenti, moltissime, usate fino al punto di perdere lucidità e consapevolezza delle proprie azioni: ed è lì che la storia da grottesca diventa prima inquietante e poi tragica, portando a omicidi, torture e suicidi: «Delitti feroci senza alcun senso», dice Stefano Nazzi. «Erano dieci-quindici. Qualcuno era un capo, qualcuno un gregario e qualcuno è scappato in fretta. Hanno fatto del male per il gusto di fare del male».
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Mon, 01 Aug 2022 - 10 - Lombardia, 1998-2004 – Seconda parte
Nel racconto di delitti e casi di cronaca nera, spesso sono i media a dare nomi e nomignoli ai protagonisti delle vicende: l’espressione “Bestie di Satana”, invece, se la diedero i protagonisti stessi. Un gruppo di ragazzi della provincia di Varese che negli anni Novanta prese a frequentarsi tra la fiera di Senigallia, un pub a Milano famoso per la musica metal, i boschi di Somma Lombardo, e che fu considerato responsabile di almeno tre omicidi e un suicidio indotto tra il 1998 e il 2004. È una vicenda che oscilla tra l’inquietante e il grottesco, prima di diventare tragica. All’inizio prevale il grottesco: le camerette da ragazzini pitturate tutte di nero, le teste di caprone in plastica, gli scambi di gocce di sangue, le frasi lette al contrario, le prove di resistenza al dolore con le sigarette spente sulle braccia, i nomi di battaglia, i riti in cui veniva evocato un improbabile essere demoniaco. C’erano anche sostanze stupefacenti, moltissime, usate fino al punto di perdere lucidità e consapevolezza delle proprie azioni: ed è lì che la storia da grottesca diventa prima inquietante e poi tragica, portando a omicidi, torture e suicidi: «Delitti feroci senza alcun senso», dice Stefano Nazzi. «Erano dieci-quindici. Qualcuno era un capo, qualcuno un gregario e qualcuno è scappato in fretta. Hanno fatto del male per il gusto di fare del male».
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Mon, 01 Aug 2022 - 9 - Avetrana, 26 agosto 2010 – Seconda parte
Il 26 agosto 2010 una ragazza di quindici anni, Sarah Scazzi, scomparve ad Avetrana, in provincia di Taranto, in Puglia. Con le ricerche della ragazza, che fu trovata morta in un pozzo il successivo 6 ottobre, iniziò un clamore mediatico con pochi precedenti persino per la ricca storia italiana di rapporti morbosi tra la stampa, la televisione e chi indaga sui casi di cronaca nera, culminato nell’annuncio del ritrovamento del cadavere di Scazzi in diretta televisiva mentre sua madre era in collegamento. Per mesi migliaia di persone si misero in viaggio verso Avetrana per curiosare tra i luoghi della scomparsa e dell’omicidio, mentre decine e decine di testimoni più o meno credibili offrirono ogni pomeriggio in televisione le loro testimonianze, spesso a pagamento, spesso contraddicendosi da un momento all’altro, pur di ottenere qualche soldo e un po’ di visibilità: a questa cacofonia di dimensioni inedite partecipavano anche le persone indagate dalla procura, che parlavano contemporaneamente con gli inquirenti e con i media.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Fri, 01 Jul 2022 - 8 - Avetrana, 26 agosto 2010 – Prima parte
Il 26 agosto 2010 una ragazza di quindici anni, Sarah Scazzi, scomparve ad Avetrana, in provincia di Taranto, in Puglia. Con le ricerche della ragazza, che fu trovata morta in un pozzo il successivo 6 ottobre, iniziò un clamore mediatico con pochi precedenti persino per la ricca storia italiana di rapporti morbosi tra la stampa, la televisione e chi indaga sui casi di cronaca nera, culminato nell’annuncio del ritrovamento del cadavere di Scazzi in diretta televisiva mentre sua madre era in collegamento. Per mesi migliaia di persone si misero in viaggio verso Avetrana per curiosare tra i luoghi della scomparsa e dell’omicidio, mentre decine e decine di testimoni più o meno credibili offrirono ogni pomeriggio in televisione le loro testimonianze, spesso a pagamento, spesso contraddicendosi da un momento all’altro, pur di ottenere qualche soldo e un po’ di visibilità: a questa cacofonia di dimensioni inedite partecipavano anche le persone indagate dalla procura, che parlavano contemporaneamente con gli inquirenti e con i media.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Fri, 01 Jul 2022 - 7 - Potenza, 12 settembre 1993 – Seconda parte
La storia di questo mese è quella di Elisa Claps, una ragazza di sedici anni scomparsa a Potenza il 12 settembre 1993 e la cui morte fu accertata soltanto nel 2010, in un caso giudiziario segnato da una montagna di insabbiamenti, depistaggi e bugie – pronunciate sia dalle persone coinvolte che da quelle non coinvolte nel processo – e che riguardò sia l’Italia che il Regno Unito. E il sottotetto di una chiesa.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Wed, 01 Jun 2022 - 6 - Potenza, 12 settembre 1993 – Prima parte
La storia di questo mese è quella di Elisa Claps, una ragazza di sedici anni scomparsa a Potenza il 12 settembre 1993 e la cui morte fu accertata soltanto nel 2010, in un caso giudiziario segnato da una montagna di insabbiamenti, depistaggi e bugie – pronunciate sia dalle persone coinvolte che da quelle non coinvolte nel processo – e che riguardò sia l’Italia che il Regno Unito. E il sottotetto di una chiesa.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Wed, 01 Jun 2022 - 5 - Erba, 11 dicembre 2006 – Seconda parte
La sera dell’11 dicembre 2006 in un condominio di Erba furono uccise quattro persone, tra cui un bambino di due anni. La storia di quella strage ottenne grandissime attenzioni da parte dei media, che inizialmente trattarono come il principale sospettato – quando non già acclarato colpevole – un uomo tunisino rivelatosi poi innocente. Furono invece indagati e condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa delle persone uccise. Molti oggi ricordano la strage di Erba per la sua efferatezza, per il clima di odio e le conseguenze estreme che seguirono delle banali liti condominiali e per il rapporto morboso dei due coniugi poi condannati. Ma c’è molto altro di notevole, nelle pieghe di questa storia: interrogatori e perquisizioni condotte in modi rivedibili, l’unico fondamentale testimone oculare che cambia improvvisamente la sua versione dei fatti, una confessione piena di dettagli poi ritrattata.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sun, 01 May 2022 - 4 - Erba, 11 dicembre 2006 – Prima parte
La sera dell’11 dicembre 2006 in un condominio di Erba furono uccise quattro persone, tra cui un bambino di due anni. La storia di quella strage ottenne grandissime attenzioni da parte dei media, che inizialmente trattarono come il principale sospettato – quando non già acclarato colpevole – un uomo tunisino rivelatosi poi innocente. Furono invece indagati e condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa delle persone uccise. Molti oggi ricordano la strage di Erba per la sua efferatezza, per il clima di odio e le conseguenze estreme che seguirono delle banali liti condominiali e per il rapporto morboso dei due coniugi poi condannati. Ma c’è molto altro di notevole, nelle pieghe di questa storia: interrogatori e perquisizioni condotte in modi rivedibili, l’unico fondamentale testimone oculare che cambia improvvisamente la sua versione dei fatti, una confessione piena di dettagli poi ritrattata.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Sun, 01 May 2022 - 3 - Garlasco, 13 agosto 2007 – Prima parte
Il 13 agosto del 2007 a Garlasco, un paese in provincia di Pavia, una ragazza di 26 anni di nome Chiara Poggi fu uccisa nella sua abitazione. L’omicidio della ragazza ottenne grandi attenzioni nell’opinione pubblica, alimentando e a sua volta nutrendosi di un clamore mediatico che avrebbe segnato la successiva fase delle indagini. I processi che ne seguirono furono tra i primi in Italia basati interamente sulle perizie scientifiche, e per questo sono diventati un caso emblematico: per come le perizie abbiano dato risultati contrastanti e spesso opposti, ma anche per i moltissimi errori commessi durante le indagini e per la lunghezza dell’iter giudiziario.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Fri, 01 Apr 2022 - 2 - Garlasco, 13 agosto 2007 – Seconda parte
Il 13 agosto del 2007 a Garlasco, un paese in provincia di Pavia, una ragazza di 26 anni di nome Chiara Poggi fu uccisa nella sua abitazione. L’omicidio della ragazza ottenne grandi attenzioni nell’opinione pubblica, alimentando e a sua volta nutrendosi di un clamore mediatico che avrebbe segnato la successiva fase delle indagini. I processi che ne seguirono furono tra i primi in Italia basati interamente sulle perizie scientifiche, e per questo sono diventati un caso emblematico: per come le perizie abbiano dato risultati contrastanti e spesso opposti, ma anche per i moltissimi errori commessi durante le indagini e per la lunghezza dell’iter giudiziario.
Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.Fri, 01 Apr 2022 - 1 - TrailerMon, 28 Mar 2022
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